Vallisnera è situata su una stretta vallecola torrentizia tra le falde meridionali del monte Ventasso e il fiume Secchia, vicino al passo di Pratizzano, antico confine tra gli stati estensi e quelli parmensi. Vi era un fortilizio appartenente ad Ugo, marchese di Toscana. Successivamente fu dato, con do­nazione dell'imperatore Ottone III a Bernardo, conte parmense. Nel 1029 passò alla chiesa e quindi al comune di Parma, suscitando le ire dei reggiani.

Nel secolo XII acquistò importanza in questa zona la famiglia Vallisnera, che diede il nome anche al paese.
Per la prima volta questa famiglia viene nominata nel 1107, quando un Vallisneri emancipò, cioè dichiarò libero, un suo servo. Pochi anni dopo, un altro Vallisneri, colpevole di aver fatto un torto ai monaci di Marola, si riconciliò con loro nel sagrato della chiesa di Frassinedolo.
La caratteristica principale dei Vallisneri era proprio la mitezza: comandavano con bontà e compren­sione la loro Signoria, come dimostra il famoso Statuto, di cui parleremo ampiamente, redatto nel 1207, otto anni prima della notissima Magna Charta Libertatum inglese (la Grande Carta delle Libertà), concessa da Giovanni Senzaterra ai suoi sudditi, considerato il primo documento che stipula un patto tra chi governa e chi è governato, un primo avvio verso la democrazia, in quanto limita il potere assoluto del sovrano.
È bello pensare che i nostri montanari, fieri quanto i loro antenati liguri, avevano già ottenuto qualcosa di analogo, seppur di minore portata storica, dato che il potere del nostro feudatario era ben diverso da quello del re d'Inghilterra.
 Tutta la valle del Secchia, fino a Cerreto Alpi, era costellata da rocche di cui restano solo la memoria o pochi ruderi.
Erano rocche di presidio, sorte sia per motivi di sicurezza sia perché erano simbolo di potere e davano la possibilità ai signori di trarre guadagni dal controllo delle vie che univano idue lati dell'Appennino. Nello Statuto si parla di diritto di pedaggio nei confronti di chi transita attraverso il Passo del Cerreto; questa zona portava anche al Passo delle Cento Croci, detto poi dell'Ospedalaccio: era quindi di grande importanza strategica.
Probabilmente anche la potenza dei Canossa, signori di origine longobarda insediatisi a Lucca e poi trasferitisi nel reggiano, è nata dalla possibilità di controllare le vie che univano l'Impero a Roma.
Non per niente l'incontro di notevolissimo valore politico tra papa ed imperatore avvenne a Canossa, nel castello della potentissima Matilde, che fece da mediatrice.
Anche i Vallisneri fecero costruire, in un posto che dominava la valle, un castello che faceva parte della catena difensiva contro le incursioni che partivano dalla Liguria; questa catena partiva dal parmense e arrivava fino a Piolo.
Di questo castello, come di molti altri della zona, non è rimasta traccia: il tempo li ha fatti crollare e alla distruzione di questo in particolare ha contribuito anche l'azione delle acque del Rio.
In questo periodo si formarono intorno alla vallata altre signorie: quella dei Malaspina in Lunigiana (fino a Verrucola) e quella dei Dalli, originari della Garfagnana, sulla valle del fiume Ozola fino a Busana.
Delle tre signorie citate la più mite era senz'altro quella dei Vallisneri.
 Lo dimostra il fatto che verso il 1200 il comune di Reggio volle estendere i suoi domini fino allo spartiacque dell'Appennino; allora, nel 1237, gli uomini di Acquabona, Nismozza, Collagna e Ramiseto fecero il "sequimentum" (giuramento di fedeltà) al comune di Reggio.
Solo la comunità di Valbona rifiutò di farlo, perché si era precedentemente legata al comune di Parma e aveva paura di rappresaglie da parte dei parmensi; disse quindi al comune di Reggio che sarebbe passata sotto il suo dominio solo se l'avesse difesa da eventuali attacchi.
I Vallisneri non si impuntarono, ma permisero che la comunità, già legata a loro dal patto bilaterale del 1207, promettesse fedeltà al comune di Reggio.
Col passare degli anni la signoria perse sempre più la sua importanza, soprattutto a causa delle divisioni ereditarie che portarono al formarsi di diversi rami collaterali della stessa famiglia.
Uno strano documento del 22 giugno 1357, strano perché redatto dal vescovo di Luni, quindi in Lunigiana, attesta che il feudo fu diviso in due: al ramo principale rimasero Vallisnera, Valbona e Acquabona, invece Collagna, Cerreto e Vaglie furono dati agli eredi di Fugazza (o Focaccia) Valli­sneri, che, lasciato il castello di famiglia, si trasferirono al Cerreto e da allora si fecero chiamare "Nobiles de Cerreto".
Ma altri personaggi si affacciano nella storia della nostra montagna. Verso la fine del 1200 Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara, estese la sua signoria su Modena e Reggio, dilaniate da lotte interne; il secondo atto era logicamente la conquista del terri­torio che gravitava intorno a queste città e, consolidata la conquista delle zone di pianura e di collina, arrivarono infine ad interessarsi della montagna.
Nel 1423 gli abitanti di Cerreto, a nome anche di Collagna e Vaglie, giurarono fedeltà al podestà di Felina, rappre­sentante del Marchese Niccolò III, uomo duro che non governava certo con la mitezza dei Vallisneri.
Il successore, Lionello, lasciò a questi ultimi solo Vallisnera e Valbona e ancora una volta loro accettarono, a differenza dei Dalli di Busana, che opposero una fiera resistenza. Ma non c'era speranza di successo di fronte all'esercito ben più numeroso e ben armato dei potenti signori di Ferrara, che si avvaleva anche di compagnie di ventura formate da soldati mercenari che facevano della guerra un mestiere.
Nel 1447 i nobili de Cerreto lasciarono le loro terre agli Estensi, in cambio di terre in pianura, a Rivalta, e di una pensione vitalizia.
Agli inizi del '600 il feudo dei Vallisneri di Vallisnera e Valbona è incorporato nella podesteria estense di Castelnovo nè Monti. La nostra montagna ha ormai dei padroni lontani e segue le sorti della famiglia d'Este.

 

Lo scenario che dal sagrato della chiesa di S. Pietro in Vallisnera, poteva osservare il viaggiatore medievale alzando lo sguardo verso le balze del Ventasso, doveva essere più o meno di questo tipo:

Il castello era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima di un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa da un mucchio di massi e dirupi, e da un andirivieni di tane e precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda a valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato, a prati in alto.
Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido, il signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi. Dando un'occhiata in giro scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella a gomiti e a giravolte, saliva al domicilio, si piegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante.

Questo quadro, con un tocco di fantasia, il rispetto dovuto ai miti letterari e tenuto conto delle epoche diverse, ci fa scoprire una singolare somiglianza fra i luoghi a noi vicini del castello dei Vallisneri, con quelli manzoniani del maniero dell'innominato, di cui abbiamo rubato la sintetica descrizione.
Ma se il potentissimo innominato è passato ai posteri come figura emblematica di tiranno sanguinario, i modesti e tolleranti conti di Vallisnera possono forse entrare nella storia come precursori della democrazia.
Nel bel mezzo del medioevo, in tempi in cui i nobili e i potenti tendono ad aggiogare a sé uomini coi i loro beni e i loro discendenti, vincolandoli ad un legame, per così dire di schiavitù, anche attraverso l'obbligo di fornire prestazioni di ogni tipo, i nobili di Vallisnera si rendono protagonisti di alcune iniziative di rottura della tendenza in atto, nel segno dell'umanesimo cristiano e del presupposto che per diritto naturale tutti gli uomini nascono liberi e come tali debbono poter vivere: Si incomincia nel 1107, quando Rodolfo, la moglie Matelda e il fratello Gugliemo, concedono la libertà ad un servo della gleba. L'emancipato comune di Bologna farà un atto analogo ben centocinquant'anni dopo (1257)!
Ma l'evento più importante, ha luogo il 4 maggio 1207 nella Chiesa di S.Pietro in Vallisnera, che immaginiamo addobbata per le occasioni solenni. Fra i Conti Nicolò e Zibello Vallisneri e i rappresentanti delle località comprese nel territorio del loro feudo, si stipula un patto - "Lo Statuto di Vallisnera" - che fissa le regole volte a garantire la convivenza civile fra gli abitanti della contea e fra questi ed i feudatari, che riconoscono quindi un limite al loro potere sulla comunità. E come nota Ferdinando Laghi, è informato da uno spirito liberale, quasi moderno, di equità e di giustizia. Non viene imposto, ma proposto. Può essere discusso, modificato e se del caso approvato. Costituisce pertanto un innovativo strumento di democrazia e di legittimazione del potere attraverso il consenso.
Negli 80 capitoli che lo compongono e che ci consentono di comprendere la realtà di quel tempo, non è contemplata nessuna "angheria" del feudatario, all'infuori della segatura delle sue "prade", del diritto di legnatico come gli altri e della fornitura di un poco di frumento.
Non ci sono tracce di "servi" o "manenti" (servi legati alla terra di cui rimarrà traccia nel cognome) e tutti gli uomini sono liberi e piccoli proprietari.
 Viene prevista la nomina signorile del Podestà, ma con il contrappeso della elezione di Consoli, Massari, Campari (guardie campestri) ecc. da parte delle varie Ville, che godono quindi di autonomia amministrativa.

Oltre a regole e divieti inerenti pesi e misure, gioco d'azzardo, "Beccai" ( macellai ), "Tavernari" e le tariffe del "Nodare" (erano esose anche allora!), vengono stabilite le pene per i reati di natura "Criminale" (penale) e "Civile" che dovranno essere giudicati dal Podestà in modo imparziale.
Per il colpevole di omicidio c'è la decapitazione: "... sia punito della testa in tal modo chel mori e l'anima si parti dal corpo...".

La violenza sulle donne ( passano i secoli e l'uomo perde il pelo ma non il vizio ), era punita con la morte a meno che non vi fosse la possibilità di un matrimonio riparatore.
Per i ladri non c'era pietà: " ...ordinano ch'ogni famoso ladro debbia essere appiccato per la golla per modo chel mora e l'anima si parte dal corpo..."
Pene pecuniarie per i dazieri e i gabellieri corrotti ( tangenti anche allora! ), per i bestemmiatori, gli spergiuri, gli incendiari, i ladri di legna ecc.
Tempi duri anche per i lupi, la cui cattura, vivi o morti, è pagata in soldi imperiali.
Non se le passano meglio gli orsi e i cinghiali, che una volta uccisi, hanno però il vantaggio di dover rallegrare la mensa dei conti.
Poi ci sono i soliti privilegiati, come quelli "della Corte di Verugola" ( Fivizzano), che sono esentati dal "pagare alcuna Gabella, Datio, o Traversio" ( diritti di pedaggio e di passaggio).
Non ci si dimentica neppure, e qui si sente odore di federalismo, di fare il proprio elenco dei giorni festivi.

Gli "huomini" che hanno l'onore di approvare tale storico documento sono: " Lombardo d'Valisnera, Jacopino Nodare di Valisnera, Guido di Pedro Paulo della Fontana ( trattasi probabilmente di località posta in prossimità di Valbona oggi scomparsa ), Ziliolo dal Cereto, Gioanni di Pedro da Levaio ( Le Vaglie ), Rolandino di Pedro da Colagna, Pietro di Gioanni da Nismozza e Antonio Pelliciare di Acquabona".
Chissà se sarà stato presente anche un prete o un monaco e magari qualche contadino con le brache strette, la tunica a mezza gamba e il copricapo in mano. O qualche armigero precettato per l'occasione e le donne col velo di tela un po' pudibonde e curiose, in fondo alla Chiesa. Comunque sia, il documento scritto in volgare prima ancora di Dante anziché in latino per essere alla portata del popolo, è il più antico della nostra regione ed è antecedente alla famosa "Magna Charta" con cui il re d'Inghilterra, nel 1215, concedeva i primi diritti ai nobili, alla Chiesa e alle città!
Dunque, se così stanno le cose, uno sperduto feudo del nostro Appennino è più avanti, viaggia fra i primi sulla lunghissima strada che dovrà portare l'Europa al traguardo delle libertà democratiche. Questa è l'eredità e il vanto dei Vallisneri, i feudatari più longevi della nostra regione che, quando nel 1796, con l'avvento repubblicano vennero aboliti i feudi, accettarono con dignità il licenziamento ricevendo l'affettuoso saluto da quelli di Nigone, i loro ultimi sudditi. Ormai avevano poco da perdere e come scrisse un membro della famiglia " Non ho più altro bene al mondo che la sanità, l'abito che porto e la gratia di Dio".
Adesso del loro castello non è rimasto che qualche brandello di muro, mentre in una casetta perduta nella campagna di Cà del Cucco, (Castelnovo M.), vive l'ultimo erede montanaro di questo nobile casato dal passato glorioso, che annovera giuristi come Bonaccorso e scienziati come Antonio. Un passato poco conosciuto da riscoprire e valorizzare, perché fa onore alla terra che li ha ospitati.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

- FERDINANDO LAGHI - Lo Statuto di Vallisnera, Quaderni della Provincia di Reggio E., 1927.

- GIUSEPPE GIOVANELLI — Don Giuseppe Donadelli, Parrocchie di Vallisnera e Collagna, 1992.

- AA.VV. — Dieci secoli d'Europa, Ed. SEI, 1995.

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